Chilometro zero. In una società fluida, interconnessa dalla Rete, le cui dinamiche inseguono trasporti globalizzati e una logistica integrata, il mito agroalimentare del prodotto locale contrapposto a quello globale ridefinisce o recupera la stessa visione degli spazi di insediamento, favorendo la riscoperta nei consumatori della propria identità territoriale, possibilmente agro-sostenibile, in cui la produttività non pregiudica la diversità, dove il cibo si sposa alla stagionalità.
In un’economia arcaica, spesso di sussistenza (presente fino all’immediato dopoguerra) dove i prodotti della terra erano naturalmente a “portata di mano”, entro un orizzonte quotidiano, la raccolta e il consumo erano correlati all’interno di una filiera comunitaria, circoscritta sul piano territoriale ma per nulla standardizzata, incorniciata nella provvisorietà della produzione e del consumo, calendarizzata ma non ripetitiva: diversificata nei suoi ritmi annuali.
Il contesto è quello della campagna veronese, fra Adige e Mincio. Dalla pianura medio-alta alla Bassa confinante col Polesine e il Mantovano, fino alle Grandi Valli dove cielo e terra si confondono in vista dell’argine del Po. Terra di antiche mietiture (frumento, mais, riso), di lavori estivi bracciantili massacranti per l’assenza di macchine. Il grande latifondo ne era lo sfondo, punteggiato dalle “corti”, comunità autosufficienti la cui continuità – come nel caso del fondo mezzadrile – era condizionata dal rinnovo dei contratti.
Il caldo d’estate era opprimente e imponeva a uomini e donne il lavoro dalle prime luci dell’alba, se non prima. Il fabbisogno energetico e la fatica disappetente imponevano un’alimentazione di comoda preparazione e rapido consumo. Uova e pomodori, sbocco naturale di una filiera domestica quasi “a metro zero”, erano la base della frittata tradizionale dei braccianti e delle loro famiglie: piatto estivo di facile confezione con gli ingredienti disponibili, poche spezie e l’olio (di semi: l’olivo era appannaggio dell’area gardesana o collinare).
UOVA
L’uovo – alimento primigenio – rifaceva la sua comparsa nella cosiddetta “minestra del caldo” –citata dallo scrittore e poeta contadino Dino Coltro – ovvero la minestra del solleone: acqua calda con uovo sbattuto e un pizzico di sale (bene sempre prezioso nella cucina dei braccianti). Se la minestra era un brodo leggero, il vino locale – pigiato magari dai grappoli della vicina piantata, architettura vegetale ormai scomparsa lungo le rive dell’Adige – costituiva un ingrediente aggiuntivo e corroborante (diffusa la pratica nelle vicine terre mantovane, ci ricorda il folklorista
Giovanni Tassoni).
ZUCCHINE, MELANZANE e PEPERONI
Zucchini lessati, melanzane e peperoni – verdure dell’orto familiare –, nel tradizionale soffritto composto di olio, sale, aglio cipolle e pomodori, o le cipolle “chioggiotte” (il “local” di Terraferma) si accompagnavano alla onnipresente polenta: base alimentare del contado, incluso il pesante dazio pagato da generazioni di pellagrosi.
FICHI
Una ricetta estiva semplicissima quanto economica era prevista per colazione e cena: fichi in umido con la polenta abbrustolita. La sua consumazione (come nel periodo autunnale la polenta e le pere cotte) era sintomo di povertà estrema. Curiosamente, i fichi utilizzati non erano però a chilometro zero. Perché, nonostante la stagionalità estiva, i fichi utilizzati per la migliore riuscita erano quelli secchi di Calabria – essendo la loro essicazione impossibile nell’autunno veneto-padano. Singolare “glocal” maturato in seno all’unità d’Italia.
ANGURIA
Concludiamo la breve rassegna con l’anguria, un tempo più diffusa del melone, soprattutto nei terreni confacenti lungo il fiume Tartaro, lungo il confine scaligero-gonzaghesco. L’anguria è nome di derivazione bizantina nel lessico padano (è il cocomero dell’Italia centrale, ma “molonara” è in veronese il suo campo di crescita in simbiosi con le zucche – melone d’acqua è l’anguria del mezzogiorno d’Italia). Il frutto rosso e succoso si accompagnava al pane nella dieta del bracciante. Seguito magari da un bicchiere di vino, incluso nel contratto di mietitura garantito dal padrone.
Il quadro descritto vale per gli anni 50 del secolo scorso come per l’inizio dell’800. E lo conferma l’inchiesta sociologica ante litteram sugli usi delle popolazioni del Regno Italico promossa nel 1811 dall’amministrazione napoleonica. L’abate Conati per il dipartimento dell’Adige racconta di campi a frumento, “sorgo turco”, risaie, distese di canapa o lino. E in essi di “molta industria, molta diligenza e fatica”. Per un’alimentazione a chilometro zero. Come l’orizzonte di buona parte dellepovere esistenze paesane, prima dei grandi fenomeni migratori dell’età contemporanea.
Contenuto redatto da:
Alberto Castaldini
Assessore della Classe di Scienze Morali, Storiche-Filologiche
Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona