Meli. Pomàri in Veneto come in Trentino. Chi è pratico degli estesi meleti della Val di Non, osservandoli con attenzione, a stento vi riconoscerà la forma dell’albero: sono piuttosto filari, da cui in questi giorni settembrini pendono, immacolate, milioni di mele difese lungo l’estate da parassiti ed eventi metereologici “estremi”.
Gli antichi alberi di melo, simili nella forma al prototipo edenico, carichi di frutti, proibiti sì ma dalle logiche di mercato, li troverete in qualche giardino ben curato, a decoro di un maso riattato a buen retiro domenicale, o in qualche orto dimenticato, circondati da erbacce, sopravvissuti per caso ai marosi del gusto. Eppure, le antiche varietà di mele, i pómi, diffuse fino a non molti decenni fa, hanno un sapore unico, inconfondibile: certamente anticonformista, non omologato, libertario.
IL MELO DECIO
La diffusione della mela nel Veronese è antica. In epoca romana erano apprezzate le cosiddette “mele lanate”, ricoperte come da una leggera lanugine. Storica anche la coltivazione del melo Decio: diffusa in passato, presente oggi nel circondario di Belfiore, fra corso dell’Adige e propaggini prealpine. Gli ci vogliono, come un tempo, terreni freschi e tanta cura: dalla concimazione alla potatura, alla secolare battaglia contro i parassiti, compreso, magari, l’ulivo benedetto ad allontanare la grandine – ben prima dei cannoni c’erano le Rogazioni.
Mele antiche anche nella denominazione, senza concessioni ad anglismi: il nome “Decio” secondo una leggendaria etimologia cinquecentesca deriverebbe da “d’Ezio”, il generale romano che affrontò Attila non molto lontano dai moderni meleti, e che con le legioni avrebbe portato da Roma nelle Venezie il prelibato frutto. In Polesine come nell’Emilia, dopo la raccolta, le mele Decio erano ammucchiate all’aperto su di un letto di paglia. Prima dell’arrivo del gelo invernale venivano ricoperte con fieno e stuoie, per ritardarne la maturazione: tempi lunghi ma non passati in cella. Mele libere, plasmate dalle stagioni. Come dovrebbero essere le nostre papille.
LE PINK LADY
Un pensiero poi alle mele Rosa (oggi rinate in Alto Adige, ma note come Pink Lady…) diffuse un tempo in tutta Europa, molto apprezzate fra l’800 e il ‘900, menzionate per il Veronese da Sormani Moretti nella sua guida-monografia provinciale (1904), che ne lodò le qualità: “mela odorosa, dalla polpa bianca, tenera, aromatica”.
LA MELA RENETTA
Lunga vita, nonostante le mode, ce l’ha anche la Renetta, tipica della terraferma veneta, arrivata probabilmente dalla Normandia: schiacciata, asimmetrica, con una metà più sviluppata dell’altra. Evviva l’imperfezione, verrebbe da dire. Con quella buccia ruvida, rugginosa, ricoperta da macchiette triangolari o stellate grigio-brune. Nessun lifting, dunque, per la buona, vecchia Renetta, uscita però sconfitta dalla lotta epocale con la Golden, la “preferita dagli italiani” (nessuno escluso?) scoperta negli Stati Uniti nel 1891 ed esportata in tutto il mondo.
LA MELA GOLDEN
Delicious è la Golden: dorata, croccante, perfetta. Non ce ne voglia l’innocente frutto (o sarà stato proprio quello di Genesi?), ma il suo successo ha forse nuociuto alle varietà agronomiche. Contro la Golden levò più di quarant’anni fa la sua bio-invettiva lo scrittore Guido Ceronetti, confluita nel volume La musa ulcerosa (1978). Sconsolato e spietato, come nel suo stile, Ceronetti vide nell’affermazione della Golden l’imposizione di una Mela Unica, il trionfo globalizzato di un gusto uniforme, al punto da associarle lo stesso concetto di “mela” nell’immaginario della massaia al mercato: “Vorrei un chilo di Golden!” “Le vuole Mela?”. Le mele povere, quelle antiche (Regine, Renette, Cotogne, Lazzeruole ecc.), hanno così ceduto il picciolo alla mela giunta da Oltreoceano.
I POMETI LAZZARINI
Concludo con un ricordo. Non certo mio, allevato già nella “Golden age” anche se memore di certe gustosissime mele rugginose e polpose di Zevio e dintorni. Chi ha mai assaporato i “pometi” lazzarini (Crataegus azarolus), dimenticati dai più, piccoli e asprigni, rossi-coloratissimi? Ne ho gustato a posteriori la descrizione che me ne faceva mia nonna, classe 1913, cresciuta in Valpolicella, infanzia giocosa e laboriosa fra pómi, pométi e peri, laddove il cibo non sempre abbondava, ma la logica alimentare, fantasiosa e precaria, del “chilometro zero” apparteneva a una secolare quotidianità non per forza “in-dorata” dal mercato globale.
Testo elaborato da:
Alberto Castaldini
Assessore della Classe di Scienze Morali, Storiche-Filologiche
Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona