Evoluzione delle pratiche in vigneto
Con l’arrivo dell’autunno la collina veronese si anima per la vendemmia, il trasporto dell’uva nei granai o la sua immediata pigiatura: pratiche apparentemente assai tradizionali che hanno in realtà conosciuto nel secolo scorso profonde trasformazioni intrecciate con altrettanto profonde persistenze.
Il principale cambiamento è dato sicuramente dall’abbandono delle pratiche di coltivazione della vite in altezza, arrampicata su sostegni vivi con i tralci tesi da albero ad albero. Sicché per la raccolta, oltre al coltello ricurvo, antecedente delle odierne forbici, per raggiungere i grappoli erano necessari treppiedi e alte scale a pioli. Di tutti questi strumenti si servono le vendemmiatrici descritte dal marchese Maurizio Gherardini nel poemetto La vendemmia in Valpolicella (1760): «Che or alto, or basso arrampicate stanno / Pendon da un cenno solo: acerbe e altere, / Esse premon le scale, e tutti fanno / Mostra delle ritorte armi guerriere; / Ecco il suo braccio ognun canestro prende, / Ognun la manca a un grappolo già stende». Lo sviluppo in altezza delle viti, oltre alla distanza tra filare e filare, permetteva la consociazione della vite con i seminativi. Sicché, come nota l’inchiesta agraria del 1882, «alle falde del colle e nei terreni delle valli interposte, ove si coltivano anche i cereali, i filari delle viti si tengono discosti dai 10 ai 14 metri, talvolta anche più», infittendosi sugli stessi colli, dove questa distanza si riduceva anche a tre metri, «condizione questa dannosa per lo spossamento del terreno che deve dar il nutrimento ai cereali».
Solo apparentemente invariato è il periodo di vendemmia. Ma se oggi la data di inizio, che negli anni passati si è collocata persino tra la fine di agosto e i primi di settembre, è legata a mutate condizioni climatiche, in età moderna era dovuta a una raccolta anticipata rispetto alla piena maturazione. La maggior parte dei coltivatori, infatti, preferiva mettere al più presto il raccolto al sicuro, seppure a scapito delle sue potenzialità, e ricavarne un reddito piuttosto che correre il rischio di perderne gran parte per qualche avversità metereologica.
Nuove tecniche di appassimento
Probabilmente conseguente a questa abitudine è lo sviluppo di diverse tecniche di appassimento delle uve che troviamo attestate tra XVIII e XIX secolo, anche se la loro elaborazione e affermazione è da attribuire ai tentativi di migliorare la qualità dei vini. La durata era estremamente variabile: generalmente diffuso era un appassimento di uno o due giorni, con l’uva lasciata distesa sull’erba, così come descrive sempre Gherardini: «È uso in Policella portar l’uva a casa, ove giunta viene distesa nell’erba, o sopra i Granaj, acciò che si spogli di quell’estraneo umore, che più abbondante nella fresca stagione suol starle intorno». Da questo derivano verosimilmente le forme più prolungate, come quella di un mese sperimentata da Benedetto Del Bene (1793) per ottenere un vino rosso secco dal sapore «amaretto grazioso». Per perfezionare la riuscita di alcuni vini bianchi Giuseppe Beretta (1841) indicava invece otto-dieci giorni di riposo dell’uva su tavole. L’appassimento per la produzione di un “vin santo”, sia secco che dolce, bianco o rosso, detto poi nel corso dell’Ottocento Recchioto o Recioto, si prolungava invece fino a dicembre se non a primavera. Sempre Beretta suggeriva per questo che l’uva venisse preliminarmente asciugata al sole, quindi «lasciata in luogo arioso per lungo tempo ad appassire, e quivi perfezionarsi, piuttosto appesa capovolta con alcun filo dal tetto della stanza, che su graticci deposta». Alla fine dell’Ottocento Giovanni Dal Siè segnala chiaramente come la pratica di appassimenti anche di breve durata fosse divenuta abbastanza diffusa per la produzione di vini secchi (“amari”) sia rossi che bianchi di qualità pregiata. Questa tecnica, dunque, si sarebbe solo in seguito circoscritta esclusivamente alla produzione di Recioto e di Amarone.
Le prime ampelografie (classificazioni delle viti, appunto), realizzate tra Otto e Novecento, riportavano come nel Veronese fosse coltivata una innumerevole congerie di varietà: si contano 44 uve bianche, 38 rosse, 73 nere oltre a una trentina di uve di classificazione incerta e 15 vitigni americani, introdotti come portainnesti per combattere la fillossera. Panorama ben diverso dalle attuali produzioni vinicole del Veronese, definito attorno ad alcune denominazioni (Bardolino, Soave, Valpolicella, Lugana e più recentemente Valdadige e quindi Arcole, Garda e Monti Lessini), ciascuna basata sull’impiego di un circoscritto e definito numero di varietà di uve. Ma anche se non rigidamente intese come avviene oggigiorno, queste peculiarità si definiscono già tra XIX e XX secolo, quando si distinguono nove aree, ciascuna con proprie caratteristiche legate alle condizioni pedologiche e climatiche e alla varietà di uve coltivate. Si passa dall’area Gardesana e delle colline moreniche, con vini rossi chiari, salati e leggeri, alla Valpolicella – associata alla Valpantena e alla valli di Mezzane, Tregnago e Cazzano per la simile natura dei terreni – che si distingue per pregiati vini neri, all’area di Soave e Monteforte, definita dal passaggio al sostrato basaltico e dove si producono soprattutto vini bianchi, per chiudere con l’Agro veronese e la media e bassa pianura, da cui escono perlopiù vini “volgari” destinati al consumo locale.
Testo rielaborato da:
Andrea Brugnoli