L’“origine” dell’olivicoltura veronese può essere collocata all’VIII secolo, quando, dopo le invasioni barbariche e l’avanzata degli Arabi, si ruppe l’unità del Mediterraneo e uscirono dall’orizzonte commerciale le regioni che nel mondo romano erano state specializzate in questa produzione: la penisola iberica e l’Africa settentrionale.
La produzione di olio
Ma questa “invenzione” medievale non è certo legata agli usi alimentari. Nel primo medioevo l’olivicoltura settentrionale si afferma infatti per rispondere alle esigenze della Chiesa: l’olio d’oliva era necessario nella confezione degli oli sacri e del crisma per i sacramenti e nell’illuminazione sacra. Per molti secoli la domanda di olio proveniente dall’Italia settentrionale e dal nord Europa venne assolta così anche grazie agli olivi del Garda, coltivati soprattutto sulle proprietà di enti religiosi, quali il monastero di San Colombano di Bobbio e Santa Giulia di Brescia, nonché quelli veronesi di San Zeno e di Santa Maria in Organo. Dell’abate Wala di San Colombano si potè scrivere nell’anno 835 che «Garda deputavit ad oleum» («destinò [le proprietà di] Garda all’olio»): il monastero possedeva qui un oliveto di più di 900 piante da cui ricavava ogni anno tra i 950 e i 1.300 chili di olio.
Col pieno medioevo, nella rinascita economica delle città dell’Italia centro-settentrionale, l’olio veniva invece richiesto principalmente per la lavorazione della lana: questa doveva infatti essere adeguatamente ingrassata per permetterne la filatura. Con lo sviluppo locale dell’industria tessile – Verona era in questo seconda solo a Firenze – l’olivo si diffuse ampiamente oltre che sul lago di Garda anche nella fascia collinare.
Di conseguenza, si creò una disponibilità di olio che ne favorì anche il consumo alimentare. Alla fine del XV secolo Giorgio Sommariva rilevava questa molteplice destinazione: «in Verona si raccoglie fra la Gardesana e la montagna tanta quantità de olio, che oltre quello che se consuma per el viver delle persone e per uso delle famiglie e quello che se spende ne l’arte de la lana, se ne vende anchor tanto che va fora del paese per marchantia».
Ma, con queste premesse, quale olio veniva prodotto? È noto che dall’età veneziana si riconoscesse agli olî gardesani una caratteristica delicatezza. Ma, se arriviamo all’età contemporanea, i dati che abbiamo sono scoraggianti. Il giudizio del botanico Ciro Pollini alla metà dell’Ottocento non conosce mezze misure, descrivendo una produzione di olio «tristissimo e sí fetente ch’ella è cosa malagevole l’accostumarsi per chi dall’infanzia non ha il palato abituato a gustarlo».
Quasi antropologica è la spiegazione data da Gaetano Pellegrini, che notava come «gli oli fini riescono, per cosí dire, insipidi ai ruvidi palati di alcuni nostri contadini» che preferivano ottenere un olio per il quale «le loro grossolane papille ne possano sentire il gusto, e abbiano ancora un risparmio dei loro cibi». Egli identificava la base del problema nella diffusione della piccola proprietà, dove il contadino «vorrebbe fosse concentrato un emporio di tutto ciò che abbisogna per la sua famiglia, perciò alla vite ed altre piante consocia l’olivo», ma senza avere gli strumenti per ottenere un olio soddisfacente.
La strada per una produzione di olio di qualità sarebbe stata assai lunga, giunta a compimento, in fondo, solo negli ultimi decenni, proprio quando dall’esterno si sono riproposti all’attenzione mondiale i vantaggi sulla salute della cosiddetta “dieta mediterranea”, inventata negli anni Cinquanta negli Stati Uniti, che ha avuto però l’intuizione di rivestirsi di un valore culturale che ne ha favorito l’accoglienza e la diffusione a livello globale.
La produzione di olive
Oltre che per l’olio, Verona era celebre per la produzione di olive in salamoia. Esportate a vasto raggio, in apposite botticelle di legno prodotte a Bosco Chiesanuova, queste olive erano ancora decantate negli anni Trenta dalla guida del Touring club («notissime “olive in composta” del Garda»).
La storia di questa produzione è assai antica. Adriano Valerini, ne Le bellezze di Verona (1586) annotava addirittura come la produzione di olio sarebbe stata subordinata a quella delle olive, sì «che poco del forastiero bisognerebbe a Verona, se non si facessero tante composte d’oliva da mandar a Venezia e in Lombardia». Poco dopo Bongiovanni Grattarolo, nella sua Historia della riviera di Salò (1599), ricorda per il Garda «quelle buone olive che si confettano in salamoia, cosí onfacine [cioè ancora acerbe] e verdi, come mature e nere».
Questa produzione era talmente significativa che all’inizio del XIX secolo le prime classificazioni sistematiche degli olivi del territorio segnalavano, a fianco di una dozzina di cultivar da olio, sei varietà destinate al consumo in salamoia, definite appunto compostar: Nostrana o zentil (ritenuta molto gustosa), Grosso (diffusa sul Garda e in Valpolicella), Bombolotto o Tombolotto (comune in Valpolicella e Valpantena, dai frutti quasi rotondi, ma con nocciolo talvolta troppo grosso), Lungo (varietà gardesana), de Spagna (dai frutti particolarmente grossi) e il Piccolo o Compostino (la piú diffusa).
[Testo rielaborato da A. Brugnoli, Verona illustrata a tavola. Agricoltura, alimentazione e cucina in una città e nel suo territorio, Verona, La Grafica editrice 2018 https://www.lagraficagroup.it/verona-illustrata-a-tavola/]